Il riso? Lo sapete che
viene tutto dalla Birmania? Il pesce? Lo importiamo dai Paesi del Nord Africa.
Gli agnelli? Arrivano sui tir dall’Ungheria. Addirittura, i maialini, orgoglio
della Sardegna, li importiamo dall’Olanda. E, adesso, anche il latte ligure, il
latte di noi liguri, il nostro latte viene snobbato dalla multinazionale
di Parmalat e Latte Oro, ci sono 6.000 litri di
latte al giorno che Parmalat non vuole più. Per
due giorni si è ripetuto lo sconcio dei bidoni rovesciati sui letamai, e per
fortuna è stato raggiunto un accordo (si tratta, però, soltanto di una
soluzione - tampone) grazie al quale un produttore di formaggi torinese, anche
se però non ha ancora dichiarato quanto intende pagare il prodotto, fino alla fine di aprile, ritirerà il prodotto. Poi si
vedrà. Questa è una strategia precisa per fregare l’allevamento ligure
ed italiano. Quello che sta accadendo con il latte degli allevatori liguri è
già accaduto da altre parti. Succede ovunque e poi le aziende hanno la faccia
tosta di mettere sull’etichetta che usano prodotti italiani. E, giustamente, i genovesi non hanno sopportato l’offesa
alla dignità, e molti stanno boicottando i prodotti della Parmalat. Niente
yogurt, niente mozzarelle, niente formaggini e niente panna dei marchi
Lactalis, la multinazionale francese che ha acquistato l’azienda. La risposta dell’azienda arriva con
l’analisi del dirigente Fabio Caporizzi: «Il problema è il crollo del consumo
di latte, meno 3 per cento in pochi mesi. Se ci fossero segnali diversi
potremmo rivedere le nostre decisioni, se no sarà ben difficile». Il latte
delle valli genovesi, Stura e Polcevera, viene portato a Collecchio. Qui è
mescolato con altro prodotto italiano, ma come conviene il presidente della cooperativa
di Campomorone Marco Cosso «è ben difficile che torni sul mercato locale».
Parmalat ribatte che si fa il possibile per rispettare i legami territoriali,
ma non è questo il punto. Dietro alla produzione
lattiero-casearia genovese ci sono decine di famiglie, un indotto
notevole, la cura e la tutela del territorio. Lorenzo Pesce, a Rossiglione, è
titolare di un’azienda agricola dove la carne è riservata soltanto
all’autoconsumo. «Se non mi prendono
più il latte rischio di chiudere. Qui siamo a 550 metri, abbiamo i
prati, coltivazioni cerealicole sono impensabili. Trasformare qualcosa? Sì, ma
occorre un’entrata quotidiana sicura». Le vacche di Pesce producono 500 litri
al giorno. L’incasso è pari a duecento euro. Parmalat - Lactalis importa il latte fresco dalla Francia, dall’Austria e dalla Germania:
costa meno. Per la lunga conservazione va bene quello dei paesi dell’Est, dove
un mungitore guadagna un terzo, 500 euro, del collega italiano. Intanto, i
cittadini inorriditi di fronte al latte versato sono insorti sui social, la
piazza contemporanea, mentre la politica, finora, non ha saputo offrire delle
risposte. Un ministro dell’Agricoltura con le palle convocherebbe subito il
tavolo delle aziende che trasformano e di quelle della grande distribuzione per
convincerle, in nome del primato dell’interesse nazionale, a lavorare sui
prezzi. Gli allevatori italiani non possono vendere il loro latte a 20
centesimi al litro. E se il ministro non fà nulla è evidente che dietro ci sia
una scelta precisa. In questo caso la responsabilità è, appunto, della Parmalat
e del governo italiano: il latte è in vendita anche a 1,60 al litro e non si
può permettere che lo paghino pochissimo agli allevatori. E, tutelerei quelle aziende che usano davvero i prodotti
italiani. Quando parlo di controllo dei confini, parlo anche delle merci non
solo degli uomini. Altri Paesi difendono di più la loro produzione, l’Italia
no: fa entrare qualunque cosa. Abbiamo idea ad esempio dal porto di
Genova quanti container di merci straniere transitino? E quanto latte non
controllato passa ogni giorno dal Brennero? In ogni territorio italiano abbiamo
un problema: a Genova c’è il latte, nel vercellese c'è il riso che arriva dalla
Birmania. Pensiamo, come abbiamo già visto, anche all’olio tunisino, al pesce che importiamo, agli agnelli
che arrivano sui tir dall’Ungheria, ai
maialini che vengono portati in Sardegna dall’Olanda. Non possiamo essere complici
della rovina della morte delle nostre aziende per far posto a prodotti
stranieri di bassa qualità. Qualcuno ha svenduto l’agricoltura italiana. Hanno
svenduto i campi e le risaie , gli allevamenti e le aziende di qualità in
cambio di favori per altri settori, acciaio e automobili tanto per dirne due.
Ma non è una situazione irreparabile, si può fare qualcosa. A cominciare, da
consumatori, cercando di comprare latte
e formaggio solo di aziende che usano prodotti italiani.
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